“1. Il recupero del buon senso: forma e sostanza servono entrambe
Qualche anno fa uscì un libro, con tematica liturgica, dal titolo accattivante: L’eresia dell’informe. Non condivido molte delle affermazioni dell’autore, soprattutto allorquando sembra contrapporre le due forme rituali del rito romano – ordinaria e straordinaria – come se fossero inconciliabili e l’una il tradimento e deturpamento dell’altra.
Ciò non di meno, Mosebach, l’autore di quel testo, poneva un problema serio: ad un certo punto, nella chiesa cattolica e nella sua prassi teologica e pastorale, ha fatto irruzione un complesso antirituale.
Si è ritenuto che tutto ciò che avesse a che fare con il rito e con la forma fosse ipso factodeleterio. Tanto da arrivare a coniare emerite stupidaggini, spacciate per conquiste di cultura e civiltà, come per esempio la frase: «io bado alla sostanza e non alla forma». Non ricordo di aver mai incontrato in vita mia una persona grezza che potesse dirsi persona di sostanza. E tutti quelli che ho incontrato che facevano dell’“anticonformismo” la bandiera della loro vita erano umanamente sgradevoli, incapaci di dialogo con chi non la pensava come loro, avvezzi a sbandierare la tolleranza come valore assoluto e altrettanto pronti a schiacciare impietosamente quanti ritenevano contrari alle loro posizioni. Mai ho incontrato un cosiddetto “progressista” che fosse capace di rispettare veramente la diversità.
Così come, d’altra parte, ho conosciuto un’infinità di cosiddetti “tradizionalisti” la cui capacità critica era annebbiata dall’ideologia e, in fin dei conti, al di là delle maniere cerimoniose, erano altrettanto umanamente rozzi, abituati così com’erano a guardare dall’alto in basso il mondo intero. Chissà perché sembra che, in quest’epoca in cui sembriamo rassegnati a non saper trovare più l’equilibrio nelle cose, amiamo accapigliarci su questioni risolvibili senza scomodare teologia, dogmatica, pastorale e morale, giacché basterebbe solo l’uso del buon senso.
Sfido chiunque a dire che la forma sia inutile e da debellare, così come sfido chiunque a dire che la forma sia tutto. Una forma vuota sarebbe una prigione museale, che ci rassomiglierebbe a cadaveri rinsecchiti i quali presumono ancora di essere vivi, ed una sostanza senza una forma che la veicoli sarebbe come un muto che pretende di essere di ascoltato. Al massimo puoi sforzarti di capirlo.
Se, per esempio, non avessimo la forma delle lettere e le forme del linguaggio, io non potrei scrivervi queste quattro ovvietà e voi non avreste la possibilità di fare l’esercizio di pazienza di stare a leggerle.
E nella presunzione che qualcuno abbia la pazienza di leggermi, lasciate che io continui a condividere con voi ciò che penso. Pensieri sparsi, sacro zibaldone di uno che si limita a guardare e si sforza di comprendere, ma che certo non ha la pretesa di essere esaustivo né risolutivo.
2. La religione visibile dei sensi e del corpo
Perché mai, oggi, ancora abbiamo bisogno di immagini, di segni convenzionali che ci rimandino ad un significato altro e più alto? Con il grado di conoscenza, di cultura, anche fin troppo specializzata, con l’intelligenza umana che ha raggiunto vette e traguardi entusiasmanti, perché mai oggi ancora ci fermiamo a guardare un’immagine, a contemplare un’opera d’arte che fattivamente non produce nulla, ad ammirare qualcosa che viene definito bello ma non ha alcuna funzione pratica?
La risposta è semplice: perché siamo uomini! Ed è complicata, perché forse abbiamo dimenticato cosa voglia dire esserlo ancora!
Per comprendere questo discorso dobbiamo ridare dignità alle cose e, fra queste, al corpo ed ai sensi. Corpo e sensi sono stati offesi tanto dalla cultura laica tanto dalla cultura religiosa. Da quest’ultima essi, per lunghi secoli, sono stati trattati come la prigione dell’anima, come il pesante fardello da cui liberarsi per ascendere verso Dio. E con buona pace dell’antropologia teologica (che da decenni si sgola per far capire che non è così) nelle prediche che talvolta siamo costretti ad ascoltare le cose vengono insegnate ancora così. Nei confessionali, puoi accusarti di aver ucciso una persona con il pettegolezzo e ricevi una pacca bonaria, ma se ti accusi di aver avuto un rapporto prematrimoniale – apriti cielo! – l’ira funesta di Dio ti viene scaricata addosso! D’altra parte, la cultura laica, tentando di affrancare il corpo ed i sensi dalla schiavitù e dall’oppressione della religione, li ha consegnati ad una altrettanto odiosa schiavitù: quella del consumo. C’è una simpatica pubblicità per un colorante di capelli per donna: una bellissima ragazza, con alle spalle un giovane di pari bellezza, facendo riferimento al recente shampoo colorante, dice: «è stata la mia prima volta!».
Ovviamente l’allusione è evidente: lei parla della tintura e noi, invece, pensiamo ad altro… Peccato, però, che guardando colei che dice «è stata la mia prima volta!», tu non pensi: «beato lui», ma pensi subito: «sei una bugiarda! Non hai affatto la faccia dell’innocente!». E così quell’accostamento di sensualità e sessualità con il colorante dei capelli ha avuto solo un risultato: attrarre gli sciocchi! Chissà perché le donne – quelle femministe – si riscaldano così tanto per il mancato cardinalato alle donne e non si ribellano in egual misura per il fatto di essere trattate ancora come oggetto sessuale.
E così, laicità e religione – nemiche per la pelle – si sono ritrovate, per vie diverse, a realizzare lo stesso fine: corpo e sensi sono ancora sviliti.
«Studiando la ritualità abbiamo potuto osservare come il rito è un mettere in esercizio la sensibilità, i sensi: è la possibilità che ci è data di creare un tipo di comunicazione attraverso il corpo». Uno studio inglese di qualche anno fa ha dimostrato come, a partire dall’Illuminismo, la religione progressivamente è stata portata fuori dal suo contesto originario nel rapporto con il corpo, attraverso tre procedimenti che sono stati assimilati dalla teologia e dalla prassi pastorale. Si tratta di razionalizzazione, interiorizzazione e testualizzazione. Questi procedimenti dell’intelletto e dell’approccio filosofico e scientifico al reale hanno fatto la loro irruzione anche nel mondo religioso. Persino alcune applicazioni della riforma liturgica o alcune prassi liturgico-pastorali sono inquinate da questa mentalità. Pensiamo per esempio a quanta fatica periodicamente venga fatta per l’approvazione di nuove traduzioni dei Messali. Si discute per anni, si battaglia sulle virgole, si creano fazioni pro o contro quella parola o quel concetto. Sembra che tutto debba essere risolto se il testo della eucologia (cioè della preghiera liturgica) viene sottoposto a revisioni che spesso concettualizzano così tanto il contenuto di fede da allontanarlo dalla vita delle persone, piuttosto che avvicinarlo. Eppure, al contrario, tanta fatica si fa per cambiare i testi, tanta ed uguale disattenzione si pone sui gesti, sui riti. Come se la celebrazione anziché un’azione liturgica fosse una catechesi pregata. I gruppi liturgici delle nostre parrocchie, quando sono chiamati a preparare una celebrazione, si pongono come prima domanda: qual è il messaggio che la Parola ci dà in questa Messa? Quasi che il fine della celebrazione sia informativo e formativo, prima ancora che performativo, cioè capace di coinvolgere tutta la persona e la sua vita per imprimerle una forza dinamica spirituale che dia forma alla vita stessa di Gesù in noi. Alla fine, scambiamo la Messa per un’operazione di marketingpubblicitario e neppure in favore del Signore, ma in favore della nostra stessa comunità per dimostrare che essa, al contrario della parrocchia accanto, è vitale e capace di coinvolgere.
Un esempio di quanto siamo caduti in questo paradosso è stata la pubblicazione di quello che viene chiamato il nuovo Rito del Matrimonio. L’editio typica altera (cioè la seconda edizione, quella del rito rinnovato) latina vide la luce nel 1990. Come sempre anche quel libro rituale prevedeva la possibilità di adattamenti alle culture locali ad opera delle Conferenze Episcopali nell’approntare la traduzione. La Conferenza Episcopale Italiana impiegò “appena” quattordici anni per dare alla luce la sua traduzione. E quale fu il risultato? Molti testi aggiunti (preghiere, formule, introduzioni e letture bibliche) e due soli gesti: velazione e incoronazione degli sposi. Ma con l’inganno! E sì, perché provenendo dalla tradizione orientale, fu scritto che essi potevano essere usati solo con il consenso
dell’Ordinario e in quelle zone dove vi era già una qual certa consuetudine. Ora tutti sanno che in Italia, le diocesi di rito bizantino sono poche: Lungro, Piana degli Albanesi e l’abbazia di Grottaferrata. Così avvenne che quasi immediatamente la stragrande maggioranza dei Vescovi si affrettò a proibire l’uso di quegli adattamenti rituali. Cosa rimaneva del nuovo Rito? Solo una marea infinita di testi.
Non ci si deve, quindi, stupire se la pietà popolare, ancor oggi, nonostante il continuo stato di riforma liturgica, continui – come in epoche passate – ad attirare più persone delle nostre celebrazioni. Né è responsabile liquidare la questione attribuendola alla scarsa formazione catechetica delle persone, che probabilmente sono abbastanza stanche di sentir parole. Hanno semplicemente bisogno di vedere. Tant’è che non seguono volentieri un pur bravo omileta, quanto piuttosto un pessimo oratore, ma luminoso testimone. La catastrofe accade quando il pessimo oratore è anche un pessimo esempio… ma questa è un’altra storia!
3. La pietà popolare: dialetto ed erotismo della fede
Se, dopo il paragrafo che sto per scrivere, non mi arriva una sospensione, allora vuol dire che nella Chiesa rimane ancora un po’ di buon senso ed una buona dose di umorismo, che tanto ci farebbe bene recuperare.
La pietà popolare ha il pregio di tenere assieme due elementi decisivi per la trasmissione della fede: la semplicità e la passione.
In quanto espressione della fede e della devozione del popolo, non sempre passata al vaglio razionalista e moralista delle gerarchie, la pietà popolare è un linguaggio comune, da tutti comprensibile, senza bisogno di troppe spiegazioni. Un corpo trafitto, una madre piangente, il volto beato di un uomo o di una donna… tutto questo non ha bisogno di eccessive parole per essere compreso. Può cambiarti o meno la vita, ma alla fine ti costringe almeno a prenderne atto, a riconoscere che c’è un patrimonio di umanità e di valori in ciò che quelle immagini rappresentano che – a meno di essere del tutto accecato dal pregiudizio – devi necessariamente riconoscere. Non importa a quale popolo tu appartenga, non importa che lingua parli, non conta neppure quale filosofia della vita tu abbia: lì vedi e intuisci, pensi, rifletti sul fatto che ci può essere un modo altro di vivere e che per quel modo c’è stato qualcuno persino pronto a dare la vita. Per questo la pietà popolare è il dialetto della fede: non richiede conoscenze grammaticali e sintattiche per essere compreso. Bastano gli occhi.
Ed ora il passaggio più pericoloso (per me, che scrivo): la pietà popolare è anche un po’ l’erotismo della fede. Abbiate un po’ di pazienza e, alla fine, se ciò che sto per dire è del tutto scandaloso, mi impegno a comprare io stesso la legna per il mio rogo.
Quando vogliamo dire ad una persona che la amiamo con tutto il nostro cuore, noi non facciamo discorsi.
Vi immaginate una dichiarazione d’amore che cominciasse con “devo argomentarti uno stato della mia coscienza che mi porta ad avvertire come un legame con te”? Sarebbe devastante! Quando vogliamo dire tutto il nostro amore, di solito, prepariamo una location con fiori e luci soffuse e magari un po’ di musica. Vista e udito devono essere sollecitati. Poi ci avviciniamo con delicatezza alla persona amata, la stringiamo a noi e le diciamo “ti amo”, magari baciandola. Perché, alla fine, il fremito del tatto è ciò che trasmette più di tutto il nostro bisogno di legarci a quella persona e, in qualche modo, di far dipendere la nostra felicità dalla sua. Solo il corpo, stretto e fuso con il corpo altrui, è il veicolo di tutto quel mondo interiore di sentimenti, responsabilità e libertà donata che noi chiamiamo “amore”. Non dobbiamo argomentare, non dobbiamo spiegare. Non c’è domanda più scema che si possa fare ad una persona come quella: perché la/lo ami? Ma vi sembra mai che l’amore possa essere spiegato? Semplicemente nasce, cresce, ti travolge, ti cambia e diventa scelta responsabile per tutta la vita.
Anche nell’esperienza della fede viviamo la stessa e identica dinamica, squisitamente umana.
Vi siete mai domandati perché uno dei primi riti che riceviamo da bambini – dopo il lavacro battesimale – è l’unzione con il crisma?
Quell’unzione non significa granché nel rito latino, giacché non è l’unzione della cresima, che viene differita ad altra età. E allora perché conservarla? Per un ricordo storico del fatto che nella Chiesa antica dopo il battesimo veniva immediatamente data anche la confermazione? Se il motivo fosse solo questo, allora sarebbe meglio toglierla.
Io credo che quell’unzione stia ancora lì, per un motivo più ancestrale. Il neonato, posto tra le braccia della mamma, immediatamente imprime nella sua memoria un odore e, attraverso quell’odore, cerca e riconosce la fonte del suo nutrimento. La prima esperienza di conoscenza e riconoscimento che noi abbiamo è quella dell’olfatto.
Quell’olio ci ricorda che abbiamo il profumo di Cristo, seguiamo quell’odore e diffondiamo quell’odore, perché chi cerca Gesù possa avere una traccia da seguire. Ed ancora: vi siete mai chiesti perché il sacramento che stabilisce la forma più alta della nostra intima comunione con Dio – cioè l’Eucaristia – richiede l’atto del mangiare e del bere?
Perché in quell’atto tutti i sensi sono coinvolti: la vista, l’olfatto, il tatto, fino alla piena assimilazione, tanto che corpo mangiato e corpo ricevente non possono più essere separati. C’è nella nostra esperienza rituale una continua sollecitazione dei sensi e del corpo: ancora una volta caro salutis cardo – la carne è la via della salvezza.
La pietà popolare sollecita i sensi: i canti popolari, le candele accese, le immagini, il bisogno di guardare, protendersi fino a toccare e magari baciare. Solo che nella liturgia tutto questo è consentito ad alcune condizioni: devi essere in grazia di Dio, devi avere i requisiti per accostarti.
Nella pietà popolare cade il velo del “ristretto a pochi” e questa esperienza carnale, sensuale ed erotica della fede è disponibile a tutti.
Sì, la pietà popolare risponde ad un preciso bisogno antropologico di potersi accostare al divino, di poterlo persino toccare, senza che questo accesso sia regolamentato, impedito o concesso, da mediazioni ingombranti.
E, se qualcuno si scandalizza di questo mio discorso, faccia una cortesia a me e a se stesso: vada a Roma, nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria, si fermi a mirare l’estasi di santa Teresa del Bernini. La guardi, si soffermi, libero da pregiudizi moralistici, si lasci coinvolgere in ciò che lì sta accadendo ed è colto nell’attimo sublime
in cui accade… e, poi, se vorrà, ne riparliamo…“
Mons. Marco Gerardo
Padre Spirituale Arciconfraternita del Carmine Taranto